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Nightswim Talks | 6 | Carola Barbero

Sherlock Holmes abita davvero al 221B di Baker Street?


NS Talks: Buonasera Carola, grazie di essere qui a Nightswim Talks. Grazie. Grazie a voi per questo bel invito che mi fa molto piacere avere accolto.

NS Talks: Tu hai deciso di occuparti di una categoria di fenomeni che i filosofi hanno spesso evitato perché tradizionalmente considerati mutevoli, effimeri, ingannevoli: ovvero le emozioni. Come mai hai deciso di occupartene e di inoltrarti in questo terreno scivoloso della cosiddetta, “ontologia delle emozioni”?


Ma io in realtà sono arrivata alle emozioni da fenomeni che sono tutt'altro che mutevoli, effimeri e scivolosi, perché il mio punto di partenza era stato con gli oggetti di finzione di cui avevo fatto un'analisi metafisica e ontologica nella mia tesi di dottorato. E quindi mi ero domandata che tipi di oggetti fossero gli oggetti di finzione in senso ampio, non solo letterari e cinematografici, ma in generale. E sono riuscita a dare delle risposte di tipo semantico relative soprattutto agli enunciati in cui questi oggetti sono contenuti. Quindi capire se è vero che "Sherlock Holmes abita al 221 B di Baker Street", capire se è vero che "Madame Bovary si è suicidata con l'arsenico", capire se è vero che "Hercule Poirot è più basso di Sherlock Holmes". Perché la filosofia del linguaggio, che è stato il mio punto di partenza per queste analisi metafisico-ontologiche, richiedeva che fosse fatta chiarezza su questo punto.


Dopo avere però concluso le mie indagini, mi sembrava di avere perso di vista qualcosa, nello specifico una parte importante di quello slancio che solitamente caratterizza l'avvicinamento delle persone comuni, quindi quelli che si chiamano in filosofia "le persone della strada", e a questo tipo di oggetti. E da lì cominciando a lavorare non soltanto in semantica e ontologia della finzione – sulla quale peraltro c'è una bellissima voce della Stanford Encyclopedia for Philosophy di Frederic Kroon e Alberto Voltolini – ma lavorando più nel dettaglio sulla filosofia della letteratura, mi sono imbattuta in questioni molto classiche della filosofia, come quelle relative al paradosso della finzione, paradosso della tragedia, paradosso dell'horror, riguardo le quali non mi era mai capitato di pensare con attenzione. Pertanto ho ritenuto che fosse importante – l'ho fatto in un libro che si intitola Chi ha paura di Mr. Hyde? – provare a lavorare su queste emozioni, senza però correre il rischio di cadere in quella che taluni hanno definito una affective fallacy, cioè ritenere il valore delle opere letterarie esclusivamente in base agli effetti emotivi che queste suscitano nei fruitori. Quindi questo è stato il mio punto di partenza e questo è il mio punto di arrivo con le emozioni.


NS Talks: Grazie. Torniamo al libro che hai appena menzionato, ovvero Chi ha paura di Mister Hyde?. In quel libro ti occupi di un tema che è particolarmente caro - a volte forse inconsapevolmente - sia ai cineasti che agli scrittori: ovvero ti occupi degli oggetti fittizi. Per chi è meno addentro al dibattito filosofico sugli oggetti fittizi ti chiediamo di spiegare quello che viene definito “paradosso della finzione” e qual è il tuo approccio per affrontare, o per risolvere questo paradosso.

Allora, questo è un paradosso che è tornato alla ribalta nel dibattito filosofico nel 1975, quando un filosofo di nome Colin Radford ha pubblicato un articolo che si intitolava "How Can We Be Moved by the Fate of Anna Karenina?", quindi "Come possiamo commuoverci per il destino di Anna Karenina?". La domanda poteva sembrare provocatoria, in realtà è molto classica perché un quesito del genere, ovviamente non con Anna Karenina di Tolstoj, era già presente nella Poetica di Aristotele. E nella risposta a questo interrogativo Aristotele rinveniva l'interesse proprio delle opere tragiche per i fruitori. Perché? Perché l'esperienza di queste opere consentiva ai fruitori di purificarsi di queste emozioni e quindi di conoscerle senza doverle pagare in prima persona, come invece accade nella vita di tutti i giorni. In ogni caso, quando Radford pone questo interrogativo, nel 1975, si apre un interessantissimo dibattito, prevalentemente basato su una preoccupazione di tipo ontologico, perché Radford si domanda come sia possibile che noi proviamo delle emozioni negative come la compassione, quindi faticose, per qualcuno che non esiste. L'esempio che lui porta è quello di un amico che ne incontrasse un altro e a cui questi confidasse di avere una sorella molto malata e sofferente che non riesce a curarsi. Dopo avere raccontato tutta questa storia molto drammatica, gli dicesse "Guarda, io non ho una sorella. Sono figlio unico". Ebbene, in questo caso, dice Radford, ovviamente smetteremmo di provare pena per la sorella dell'amico. Come mai con Anna Karenina questo non succede? La risposta che dà Radford è che quando noi fruiamo di opere di quel tipo siamo irrazionali, quindi ci commuoviamo perché è come se non ci rendessimo conto che ciò per cui proviamo quelle emozioni non esiste.


Ci sono state moltissime tipologie di risposte che poi i filosofi hanno proposto per risolvere questo paradosso, che è tale perché si compone di tre tesi che sono: 1. Il lettore o lo spettatore prova emozioni per Anna Karenina, nel caso di Anna Karenina; 2. Lo spettatore, per provare delle emozioni, dovrebbe credere che Anna Karenina esistesse. Tuttavia, e questa è l'ultima tesi (3), lo spettatore sa che Anna Karenina non esiste. Queste sono tre tesi che, prese individualmente, sembrano plausibili. Tuttavia, prese insieme, ingenerano il paradosso. Radford con la sua risposta non lo risolve, ma se vogliamo lo accetta in quanto tale, dicendo "Siamo esseri che talvolta sono irrazionali". Altri autori, come per esempio Kendall Walton, che è uno dei filosofi che si occupano di filosofia nell'ambito dell'estetica più noti e sicuramente che hanno anche proposto lavori di grande impatto – penso a Mimesi come fare finta, un lavoro importantissimo – suggerisce, per risolvere il paradosso, di modificare la prima premessa, quindi di dire che in realtà lo spettatore non è davvero commosso per Anna Karenina, non è autenticamente coinvolto dal punto di vista emotivo. Walton dirà che lui prova delle quasi-emozioni, quindi delle cose che sono simili alle emozioni dal punto di vista funzionale, ma che non sono autentiche emozioni.


Qualcun altro, come Peter Lamarque, sostiene invece che possiamo modificare la seconda tesi, quindi che noi dobbiamo credere nell'esistenza di qualcosa per provare delle emozioni verso questo qualcosa. Qualcun altro, ancora, penso a Coleridge nella sua Biographia Literaria, modifica la terza tesi difendendo quella che lui chiama la suspension of disbelief, cioè quando noi fruiamo delle opere di finzione è come se ci dimenticassimo che sono opere di finzione, e quindi abbiamo una sorta di illusione per cui crediamo che sia vero. Questa peraltro, che è stata una tesi lungamente considerata bizzarra e difficile da difendere – oggi autori come Gerrig, o nell'ambito di studi più ampi su questo, penso a Eco, che parlava di raptus mistico – è stata nuovamente difesa con un certo successo e anche persuasività. Io personalmente in Chi ha paura di Mr. Hyde? ho difeso una modifica della seconda tesi, quindi ho proposto una sorta di versione alternativa della teoria del pensiero che si appoggia su una teoria dell'oggetto, originariamente difesa in filosofia da Alexius Meinong, che sostiene sostanzialmente che noi dobbiamo provare emozioni verso un oggetto, quindi dobbiamo avere un oggetto verso il quale le nostre emozioni sono dirette. Tuttavia non è richiesto che questo oggetto esista.

NS Talks: Come non richiesta è questa mia opinione su Coleridge e la sospensione dell’incredulità per cui assolutamente parteggio senza dubbio.

E hai anticipato i tempi perché oggi quelli che studiano fenomeni come l'immersività dicono che quella è la soluzione, mentre le altre sono soluzioni interessanti, ma dal punto di vista teorico costose, diremmo, perché uno si deve comprare una certa ontologia o finzionalista, nel caso di Walton, cioè dire che gli oggetti finzionali non esistono e quindi dobbiamo spiegare perché hanno un ruolo nei nostri giochi di fare finta, o vuoi alla Lamarque, (anche la posizione che difendo io stessa) che si appoggia su una teoria diciamo barocca, pesante come la teoria dell'oggetto. Invece l'ultima soluzione, quella originariamente proposta da Coleridge, e poi appunto difesa da autori indubbiamente importanti, è meravigliosa perché non va a toccare la nostra esperienza proponendo una teoria diciamo complicata, invece rende perfettamente conto anche di quello che noi diciamo nel linguaggio ordinario, "quel film mi ha rapito". Poi certo che è un raptus come dice Eco, perché noi non ci precipitiamo sul palcoscenico per salvare la sventurata, no, ci rendiamo conto di essere in un contesto spettatoriale e non di essere sul palcoscenico. Però anche io adesso sto cominciando un po' a cambiare opinione, se devo dire la verità.


NS Talks: Ok, vedremo vedremo come andrà a finire.. Passiamo invece ad una tua opera, diciamo, più pop rispetto a Chi ha paura di Mr. Hyde?, che si intitola La porta della fantasia. È molto interessante un passaggio in cui spieghi l'importanza del milieu culturale in cui nasce un’opera e anche del contesto storico e delle intenzioni dell'autore. Fai questo esempio degli Annali di Tacito, che all'epoca sono stati classificati come un’opera storica, mentre oggi sarebbero considerati, al contrario, un’opera di fantasia. Cosa ci insegna secondo te questo ribaltamento nel tempo?

Secondo me ci insegna che la distinzione tra la realtà e la finzione non può essere posta in maniera netta. Questo è stato un sogno lungamente accarezzato dai filosofi del linguaggio e dagli ontologi, cioè di poter mettere da una parte la realtà e dall'altra la finzione, no, mettere un po' di ordine. Però, come ben mostra Kendall Walton, di cui vi ho parlato anche prima, in Categories of Art, e sulla sua scia Stacie Friend in un articolo molto bello che si intitola "Fiction As A Genre", quindi "La finzione come genere", spiegano come in realtà questa non sia una distinzione che può essere tracciata in maniera netta, proprio perché ci sono, sì, delle proprietà che caratterizzano maggiormente certe tipologie di opere rispetto ad altre e indubbiamente ci sono dei requisiti che noi richiediamo come lettori, come fruitori, che siano soddisfatti affinché un'opera sia o meno riconosciuta come un'opera di un certo tipo.


Tuttavia, innanzitutto, i generi possono venire modificati o cambiare nel corso del tempo, per esempio, gli Annali di Tacito, che sono delle opere storiche, hanno proprio uno scheletro di regole per essere realizzati in maniera appropriata, che è completamente cambiato. Tacito raccontava i sogni, le speranze dei condottieri. Oggi un libro di storia non riporterebbe mai qualcosa del genere. Tuttavia questo era richiesto dalle opere di quel tempo, anche per ragioni di tipo didattico-pedagogico e per altri motivi. In ogni caso, il fatto che la distinzione netta tra realtà e finzione non possa essere posta spiega anche come occorra valutare con la giusta attenzione anche delle opere che si pongono, come, diciamo, concernenti la realtà per definizione. Prendiamo Gomorra di Roberto Saviano alla voce narrante, il narratore che è fittizio, comincia con un io, ma quell'io non esiste perché Saviano non è stato un testimone di quanto ha raccontato. Forse quell'io siamo tutti noi, sono tutti coloro che hanno in qualche modo assistito all'instaurarsi, al consolidarsi, al perpetuarsi di quella realtà che viene descritta nel libro, ma l'io non esiste.


O pensiamo alla difficoltà che può aver avuto Emmanuel Carrère nello scrivere L'avversario, quando non riusciva a trovare il modo di raccontare la storia di Romand. Quindi tutte queste, anche porte di ingresso alla realtà, sono finzionali, così come in molte opere finzionali chiaramente ritroviamo la realtà. Banalmente si può partire dalla realtà del linguaggio che non viene inventato, no, c'è questa bellissima discussione tra stessi Friend e Harry Deutsch, perché Harry Deutsch definisce come finzionale tutto quello che è creato ma quasi da out of thin air, no, dal nulla, così, e giustamente stessi Friend dice ma anche quello che è creato in questo senso così forte in realtà si basa su un linguaggio che è condiviso, che è oggettivo, che una società ha già. E questo per dire che, in realtà, lungi dall'essere delle categorie che per quanto rassicuranti ci piace immaginare, non possiamo in realtà mai applicare ai tipi di opere con le quali ci confrontiamo, anche se possiamo rilevare ovviamente un continuum, ci sono opere che si occupano, più per scopi, della realtà. Gli esempi che vi ho portato prima – New Journalism, quindi da Capote a Carrére, sono chiaramente più da una parte, così come, non lo so, Alice nel paese delle meraviglie può essere più dall'altra, però entrambi in realtà hanno sempre degli elementi reali e finzionali

NS Talks: Agli inizi della tua carriera difendevi una concezione ontologica che viene spesso definita come molto, molto generosa, perché presuppone diverse entità che tanti filosofi non includerebbero nelle loro ontologie, ovvero nei loro “cataloghi del mondo”. Leggendo invece le tue opere recenti questa posizione mi sembra variata, perciò mi interessa se hai pensato a quali conseguenze etico-politiche si possono trarre da una ontologia così inclusiva.

Allora, io non ho cambiato posizione. Talvolta capita, quando si invecchia, di cambiare posizione, diventare meno generosi, un po' più avari. A me non è successo. Continuo a difendere un'ontologia molto generosa. C'era una volta un articolo sui fictional and mythical objects dove l'autore scriveva: "Ma nei confronti di queste domande bisogna scegliere: o tutti o nessuno". Non è che uno può dire "io accetto gli oggetti finzionali, ma non accetto gli oggetti mitologici, ma non accetto gli oggetti ipotetici, ma non accetto gli errori". Ecco, io in questo rimango meinonghiana. Quindi basta che qualcosa abbia una proprietà ed è un oggetto. Penso che sia anche importante essere dei meinoghiani assennati, quindi bisogna essere capaci di distinguere i vari oggetti. Gli oggetti non sono tutti dello stesso tipo, ci sono degli oggetti diciamo più ricchi, per esempio quelli spazio-temporali, quelli che possiamo incontrare, con cui possiamo prendere un caffè, con cui ci possiamo scontrare. Degli oggetti, magari anche molto ricchi ma più rigidi, per certi versi come gli oggetti finzionali: se voglio prendere un caffè con Madame Bovary – non posso. Tuttavia, se voglio immaginare Madame Bovary alta come me, lo posso fare perché Flaubert non ce lo dice quanto è alta Madame Bovary, ci dice che aveva un'altezza media, quindi forse posso immaginarla alta come me e posso immaginare che abbia il 38 di scarpe, se lo voglio fare. Non credo di poterlo immaginare eccessivamente intelligente, perché Flaubert mi dà ottime istruzioni per pensare che forse del tutto intelligente non lo sia, banalmente perché ha ritenuto che i romanzi insegnassero delle cose vere, ha cercato nella vita qualcosa che soltanto la finzione è stato capace di offrirle.


Se tutto questo può avere delle conseguenze etico-politiche, se fosse applicato chiaramente, penso di sì. Però così come la teoria filosofica che difendo è molto costosa, ha dei costi elevati, non a caso le teorie meinonghiane sono sempre delle teorie che vengono molto criticate, perché è vero che aiutano a risolvere molti problemi, però è anche vero che costano tanto, costano tantissimo. Uno come Bertrand Russell, per esempio, non era assolutamente disposto a spendere tutto questo. Lui era uno più essenziale, spendeva il minimo indispensabile, nonostante quando era giovane ammettesse gli oggetti possibili, dopo non li ammetteva più. Quindi penso che sarebbe importante poter trarre delle conclusioni al riguardo. Però bisogna essere consapevoli dei costi e io sono, nonostante sia poi nella realtà una persona anche parsimoniosa, non sono affatto contraria alle spese molto elevate, devono avere un senso, devono avere un senso, ma penso che non ci sia nulla di più interessante dei soldi ben spesi, come nelle mie teorie dimostro sempre.


NS Talks: Passiamo ora a Quel brivido nella schiena in cui parli molto approfonditamente del concetto di opera letteraria, di stile, della differenza fra linguaggio ordinario e linguaggio poetico-letterario, di linguaggio trasparente e linguaggio opaco, di deviazione dalla norma: non è il cosa ma il come. Appunto, come applicheresti queste distinzioni, queste definizioni - proprie della letteratura - al linguaggio cinematografico, alla narrazione per immagini? Dove rintracceresti l'impronta digitale, la firma del cineasta questa volta, la firma del regista?

Questa è una domanda difficile, perché ha a che fare con un argomento difficilissimo che è quello dello stile, quindi che cosa sia lo stile. Frege in Über Sinn und Bedeutung dice, parlando di traduzione, che ovviamente la traduzione trasporta il senso, il significato di un testo, ma quello che non si può trasportare è il tono, il colore di quel testo. Il tono, il colore che cosa sono? Sono la mano dell'autore. Che cosa voglia dire avere una certa mano, avere un certo stile? Quello che fa riconoscere quell'autore rispetto a tutti gli altri. Poi ci sono degli autori che sono camaleontici, quindi che riescono anche a creare stili molto differenti a seconda del tipo di opere di cui si occupano. Ci sono anche quegli autori che hanno sempre una specie di fil rouge, oppure che hanno delle caratteristiche che noi ricerchiamo nelle loro opere per vedere la loro mano, per cercare appunto la loro mano. Sono più dentro le questioni letterarie che in quelle cinematografiche, però, si potrebbe pensare – pensiamo a un autore come Matteo Garrone – che è un autore molto interessante perché si è sempre occupato di qualcosa come l'umanità, l'essere umano, la caratteristica dell'umano, e l'ha sempre fatto. E questo è qualcosa che ho sempre apprezzato perché è anche molto dentro le questioni filosofiche e letterarie. L'ha sempre fatto da una certa distanza, anche da dentro, no. Quindi ha lavorato molto su due temi che sono centrali tanto per il cinema quanto per la letteratura che sono: la prospettiva, e dall'altro, diciamo, il contenuto che è dato grazie a questa prospettiva. Un autore come Carver, che indubbiamente ha lavorato molto sulla prospettiva, faceva delle specie di fotografie con i suoi racconti, delle polaroid, però di parti del corpo che noi normalmente non ci aspettiamo nelle fotografie, no. Pensate a fotografie di caviglie, di mani. Certo che si capiscono delle cose, però sono un po' particolari.

Ecco, a me Matteo Garrone è sempre sembrato un regista molto interessante anche nelle sue prime opere tipo Terra di mezzo, Ospiti, perché è riuscito a mettere insieme questa dimensione della prospettiva e del contenuto e mettere anche un po' in difficoltà, se volete, il fruitore perché per un certo verso si sente lì, lì dentro, e per un altro, invece, ha la possibilità di distanziarsi un po' per provare a capire, per avere la possibilità di provare a capire, che è qualcosa che con le opere d'arte è sempre fondamentale provare, renculer un peu, no, riuscire a fare qualche passo indietro. Con alcuni dipinti è obbligatorio, pensate ai dipinti degli impressionisti: se uno non fa un piccolo passo indietro, non li capisce. E questo si vede appunto anche nei suoi primi lavori che sono più sull'immigrazione, che peraltro per certi versi tornano anche in questa sua ultima opera molto interessante.

Oppure un altro aspetto che in Garrone mi è sempre piaciuto, che è molto letterario, è il tema della definizione. Cioè mi sembra un autore – e poi voi lo saprete sicuramente molto meglio di me – che prova sempre a definire i concetti di cui si tratta nelle sue opere e anche quando arriva a delle definizioni sbagliate – prendete il suo tentativo di definire l'amore come possesso, pensate a L'imbalsamatore, pensate a Primo amore – ecco lui prova a definire l'amore, una definizione non la trova, o meglio, ne trova una che è sbagliata. Però ci lavora dentro, no, ci lavora dentro e viene fuori quasi un lavoro in negativo, no, cioè ci dice quello che l'amore non è, e quello per cui uno lo può scambiare, il caso in cui uno si può sbagliare. Ecco io queste parti qui della sua mano che poi ho ritrovato in altro modo sicuramente in Gomorra, in questa velocità, e per tornare anche al discorso che facevo prima sulla tipologia di romanzo che ha scritto Saviano, oppure in quel tentativo, non so se poi si possa definire una commedia, reality, non so bene, è un'opera strana, che forse non ho mai capito fino in fondo. Però ecco, la sua mano forse la vedo in questo studio della distanza che ho trovato in tutti i suoi lavori e poi in questo lavoro con la definizione per immagini, che è difficile, ovviamente. Mentre la definizione a cui io sono più abituata e con cui sono più anche solita destreggiarmi è quella con le parole che è più tradizionale, se vogliamo.


NS Talks: Restiamo in tema perché In una delle tue tante interviste dichiari che l'arte pura della letteratura, appunto torniamo a questo, la tua grande passione primaria, sta nell'impatto immaginativo, nella possibilità di dare volto, dare voce, dare spazio a questi piccoli mondi incompleti che gli autori accennano nel testo e che nel cinema tutto questo invece è talmente determinato da semplificare, se non impedire l'inversione percettivo-creativa nel testo. Che rapporto hai appunto tu col cinema da questo punto di vista, visto che in qualche modo hai già risposto? E cosa ami di più? Quanto ami appassionatamente il cinema e quanto pensi che si possa avvicinare a quel brivido che ti dà invece la letteratura?

Ma anche il cinema mi ha dato molti brividi. Rispetto alla letteratura il cinema ha – che mi affascina moltissimo – la dimensione del contenitore. Cioè, sei in un posto in cui sei sicuro di poter fare solo quello. E invece nella lettura spesso mi capitano quelle situazioni descritte magistralmente da Proust, quando uno è lì che legge e legge, legge, è proprio immerso per certi versi tra quelle parole e di colpo viene interrotto. Ed è terribile, perché poi una volta bastava staccare il telefono, invece adesso è impossibile, è impossibile perché si viene costantemente disturbati. Ecco, in questo il cinema lo trovo più garbato perché mi dà la possibilità... sono anche obbligata perché giustamente un buono spettatore si spegne tutto e ha due ore da dedicare a questa esperienza estetica. Quindi è indubbiamente un'esperienza che nel caso del cinema trovo più facilitata.

Per quanto riguarda proprio il tipo di apprezzamento, allora Iser, uno dei maggiori esponenti della Scuola di Costanza, descrive molto bene questa opera, questa differenza, se vogliamo, tra la fruizione letteraria e quella cinematografica, dove mentre in quella letteraria noi, come ben ci insegna Ingarden, dobbiamo completare quello che leggiamo, ci viene detto che, che ne so, Madame Bovary dopo il suo incontro per cui si è abbandonata, si riavvia i capelli e si toglie le foglie, noi dobbiamo immaginare che prima sia accaduto qualcosa, no. Quando Flaubert ha scritto "elle s'abandonne". Nel cinema spesso le cose ci sono presentate, anche se non tutte le scene, ovviamente, che sono in una sequenza spazio-temporale, ci sono presentate, però sono di più e soprattutto, che ne so, i personaggi hanno un volto che è quello degli attori, le ambientazioni ci sono date, forse il motivo per cui Iser dice che spesso quando vediamo le versioni cinematografiche dei libri ci può capitare di dire "non è come me l'ero immaginata". Perché? Perché quella forma di concretizzazione, come la chiama Ingarden, in realtà è diversa per tutti i lettori. E banalmente, la concretizzazione che ha dato il regista non è detto che sia la stessa concretizzazione che ho dato io o che avrebbe dato l'autore.

Su questo c'è un esempio divertente della, diciamo, versione cinematografica della Musica del caso di Paul Auster che è stata fatta da Philip Haas. Paul Auster quando interrogato sulla resa cinematografica della sua opera ha detto "Mah, sì, mi sembra un'opera ben fatta. Tuttavia gli attori erano completamente diversi rispetto a come io avevo immaginato i personaggi. Non sono i miei personaggi, perché i miei personaggi erano degli altri". Questo ovviamente può avere delle rese più o meno soddisfacenti anche nel caso di capolavori: per esempio io che sono una grande appassionata di Madame Bovary, ho visto chiaramente La Madame Bovary di Chabrol, che dal punto di vista cinematografico è bellissimo, con un problema però grande come una casa, cioè che la protagonista, che è Isabelle Huppert, è meravigliosa, ma è troppo per essere Madame Bovary, cioè è troppo, è troppo ricca, è troppo carica, cioè Madame Bovary era veramente una stupidina, cresciuta dalle orsoline e sposata con un uomo che non era quello dei suoi sogni e che poi si è uccisa per i debiti. Isabelle Huppert è troppo, ecco, è troppo. E quindi uno vede come la concretizzazione di Chabrol, che è indubbiamente interessante, sia anche distante da quello che uno potrebbe vedere forse da un punto di vista normativo come la corretta versione di Madame Bovary.

NS Talks: Ok, io salto una domanda per recuperarla dopo perché, visto che ne stiamo parlando, nel libro affronti in modo molto approfondito anche la questione della traduzione, che è un tema infinito, forse irrisolvibile, di quel "dire quasi la stessa cosa", cioè della riscrittura di un testo in un'altra lingua. Cosa pensi di tutte le implicazioni complesse che porta la confluenza fra cinema e letteratura? Ne abbiamo appena parlato, ma per esempio in Shining o in Lolita? Allora Lolita, per esempio, nella sua versione scritta, è un capolavoro e in particolare è un capolavoro che per quanto riguarda il linguaggio, riesce anche a dare quasi un piacere percettivo al lettore. No, pensiamo a "Lo-lee-ta: the tip of the tongue taking a trip...", questa lingua che sbatte contro i denti già mentre proferisce il nome di Lolita. Ecco, difficile renderlo. Per altro la Lolita di Kubrick, quella del '62, è interessantissima. Perché? Perché è uno di quei casi di traduzione cinematografica fatta dall'autore, perché Nabokov è stato sceneggiatore di quella versione cinematografica. Anche se lui si lamentava perché diceva che era stato utilizzato solo il 20% della sua sceneggiatura, perché Kubrick diceva che se avesse dovuto usare tutta la sceneggiatura fatta da Nabokov, avrebbe dovuto fare un film di 7 ore e non era il caso. Quindi l'aveva poi un po' tagliato. In ogni caso, quello è interessante. Perché? Perché è l'autore stesso che accompagna la traduzione.

Questi esempi si danno anche in letteratura, chiaramente pensate al capitolo dell'Anna Livia Plurabelle di Joyce tradotto dallo stesso Joyce con l'aiuto di Nino Frank. Pensiamo a Beckett che si traduce, ci sono molti autori che si sono tradotti, no? In ogni caso, quando si tratta di una versione cinematografica, si ha anche quella responsabilità di cui parlavo prima, cioè, posto che sia dire più o meno la stessa cosa, in questo caso facciamo una traduzione intersemiotica, cioè passiamo da un medium come quello del testo a un altro che è quello per immagini e quindi diciamo è qualcosa di impossibile per definizione, perché un testo non è un'immagine, per quanto possa evocare immagini, per quanto possa rappresentare delle scene che noi magari anche visivamente ci immaginiamo quando leggiamo il testo, un testo non è un'immagine. Tuttavia io amo questi, diciamo, salti mortali perché quando riescono sono meravigliosi. Nel caso di Lolita sicuramente si dà questo caso, ma anche nel caso di Shining.

Io devo dire, soprattutto di opere che amo molto, per esempio ho avuto la fortuna di leggere prima Lolita di vedere il film di Kubrick. E qui si presenta peraltro anche un altro elemento del quale non abbiamo ancora parlato, che però è centrale in tutte queste nostre conversazioni, che è quello relativo all'opacità, nel senso che la traduzione, per essere possibile, dovrebbe essere trasparente, ma il testo letterario, in quanto opera d'arte, è opaco per definizione. E quindi uno può dire quasi la stessa cosa, ma è sempre dire un'altra cosa. E lo stesso Eco insiste nel dire che la traduzione è un processo di negoziazione: dobbiamo perdere qualcosa per avere qualcos'altro in cambio. Nel caso della trasposizione cinematografica delle opere letterarie questo è senz'altro vero, però è anche vero che nei casi di negoziazione, diciamo che sono forse più dei miracoli che delle operazioni di negoziazione: noi possiamo anche perdere qualcosa però per trovare un tesoro, e in alcuni casi è così. Cioè io penso che nel caso di Lolita di Kubrick noi abbiamo un'altra opera – io non direi che è l'opera di Nabokov, direi che è tratta dall'opera di Nabokov, e la sceneggiatura è indubbiamente di Nabokov, nonostante sia stata tagliata – però, siamo riusciti, diciamo, a vedere quella ninfetta sorridere sullo schermo, che è qualcosa che sicuramente leggendo il libro, dentro il libro non siamo mai riusciti a trovare. Come se emergesse dal testo, però condivisa da tutti perché ovviamente io concretizzerò Lolita a mio modo, ma sarà sempre diversa dalla tua. Invece in questo caso, diciamo, sarebbe la stessa per me e per te, che non è male


NS Talks: Certo, ci si universalizza l'immaginario. Ok, Andiamo ancora un po’ più in fondo perché studiando il tuo libro mi sono soffermato anche molto sul rapporto fra contenuto e forma. Citi, per esempio, Lamarque che sostiene che le opere letterarie di genere romantico, horror, giallo, thriller, richiedano una letteratura trasparente, siano ontologicamente trasparenti. Ovviamente, con le dovute eccezioni, ne abbiamo già in realtà un po' parlato. E però penso anche che questa considerazione possa essere applicata al cinema, cioè che gli stilemi di genere in qualche modo superino l'autore, vengano prima dell'autore, addirittura in qualche caso annullino l'autore. Sei d’accordo con questo, ci vuoi un po' approfondire questo aspetto?

Sì, questo è quello che su cui Lamarque insiste e che può anche sembrare un punto di buon senso. Cioè se noi distinguiamo come opache o trasparenti quelle opere rispetto alle quali ci interessa il contenuto, la trama, come va a finire, oppure quelle opere in cui invece ci interessa rinvenire la mano dell'autore, potremmo dire che le opere trasparenti siano quelle appunto che come genere, che ne so, horror, giallo, vogliamo appunto scoprire, non vogliamo andare avanti, siamo interessati più al contenuto che non alla sua forma. Invece altre opere sembrano essere diverse. Notate che prima parlavamo di Lolita, questo era proprio un punto su cui Nabokov già insisteva quando Lolita era stata criticata. Infatti, non a caso era poi stato pubblicato – perché tutti gli editori americani erano molto contrari a pubblicare un testo con un simile contenuto – non a caso era poi stato pubblicato nel 1955 dell'Olimpia Press, che era una casa editrice erotica francese. E Nabokov in questa postilla scrive che chi rimanesse scioccato leggendo il suo libro e per il contenuto dice non avrebbe capito con che spirito bisogna avvicinarsi a questo libro, dice io questo libro non l'ho scritto, dice, il contenuto è un pretesto e un pretesto per fare un impressionante esercizio di stile, per mostrarvi la mia bravura. Ecco, questo è qualcosa che secondo me si ritrova anche nei generi horror, thriller cinematografici.


Tuttavia, secondo me, non bisogna neanche farsi troppo persuadere da questa linea interpretativa, perché ci sono poi anche moltissime opere che possono ricadere all'interno di questi generi, dove però, proprio come dicevo prima, il genere è un po' un pretesto. E sarebbe, che ne so, se uno leggesse i Maigret pensando che siano dei noir, secondo me sibaglierebbe, secondo me si sbaglierebbe. È vero che poi lì all'inizio c'è un caso e che Maigret alla fine lo risolve. Però io credo che la maestria di Simenon nello scrivere i Maigret, che per lui erano solo dei "roman", mentre i “roman – roman” erano quelli proprio i libri importanti, quelli che gli toglievano il sonno, mentre lui i Maigret li scrive in tre giorni, ecco, i Maigret, secondo me, sono molto interessanti, perché di fatto sono tutti lo stesso libro, sono tutti lo stesso libro, c'è sempre la definizione, sono sempre delineati gli stessi profili. E questo compito che avrebbe Maigret di essere una specie di riparatore di destini e poi quello che troviamo ancora paradossalmente nelle Memorie intime che non è un Maigret, è una sorta di ultima confessione che fa Simenon quando ha smesso di scrivere, dopo il suicidio di sua figlia. E li ritroviamo tutti i fili di questi uomini perduti, mediocri, che vagano in queste nebbie e che vogliono soltanto, forse essere ascoltati, come in Lettera al mio giudice, dove anche il fatto che siano poi scoperti forse non è nemmeno così rilevante, perché quello che è rilevante è questo abisso in cui le persone tutte precipitano per vedere che poi sono veramente poca cosa. Ecco quindi questo, per esempio, è, secondo me, interessante perché mostra come un tipo di letteratura spesso considerata di genere – tant'è che i Maigret sono una cosa così, anche dei polizieschi – in realtà secondo me un occhio attento li può vedere come quello che sono, cioè delle tessere, in realtà, di un mosaico molto più ampio e secondo me anche nel caso di alcuni gialli, alcuni horror questo è dato rilevarsi.

NS Talks: Fantastico, grazie. Passerei a questo punto però all'ultima, diciamo, domanda assoluta, sulla quale, chissà, potremmo stare qui alcune ore. Ovvero che la certezza del mondo classico, del mondo antico, sulla funzione della narrazione era poter conoscere il mondo, il mondo degli uomini e il mondo delle donne. Pensi che possa essere ancora così? Pensi che la gran parte del testo, dei testi letterari, visivi, pittorici, cinematografici, sul web oggi abbiano ancora il fine di far conoscere il mondo? O pensi invece, come in qualche modo accenni nel testo, che riferire la realtà sia impossibile, che deformi tutto, che si debba scegliere sempre e ancora tra il vivere e il raccontare. E a questo proposito, cosa pensi, come approcci la ricostruzione del mondo che noi umani stiamo progressivamente affidando all'intelligenza artificiale?

Questo è forse un punto rispetto al quale, invecchiando, un po' ho cambiato opinione. Ecco, forse perché più si conosce il mondo, più si rischia di rimanere delusi o magari un po' messi in difficoltà. Io penso che un un aspetto fondamentale della narrazione, della letteratura, ma anche del cinema, sia quello di provare a farci assumere una prospettiva diversa rispetto a quella che abbiamo. La prospettiva è fondamentale, in realtà, non tanto per stabilire il valore di verità, ma per provare a capire, per darsi questa possibilità. Nabokov, che è un autore molto presente per me, come avete avuto modo di constatare, iniziava talvolta le sue lezioni ai suoi studenti, mettendosi in piedi con la testa tra le gambe, dicendo ai suoi allievi "Vedete, è molto importante essere capaci di cambiare prospettiva". Ecco, cambiare prospettiva Io credo che sia fondamentale, penso che sia un esercizio che che non si fa mai abbastanza perché soprattutto invecchiando si tende a vedere la propria prospettiva come l'unica. E invece, è banale, ce lo insegna già la fenomenologia, no, che una scena, ma anche un oggetto… Husserl fa l'esempio della mela, dice: "Guardate questa mela è rossa, ma se la giro dietro è marcia". Quindi essere capaci di cambiare la prospettiva è fondamentale per provare a capire qualcosa della realtà in cui ci si muove.


Indubbiamente, nel caso letterario-cinematografico, provare a raccontare questa prospettiva vuol dire renderla altra. Se io racconto la realtà in un testo, l'abbiamo detto prima aproposito di Gomorra, a proposito della Città dei vivi, a proposito dell'Avversario, la rendo un'altra cosa, però è anche vero che rendendola un'altra cosa la rendo disponibile. E qualcuno ne può fruire, qualcuno può lavorarci, immaginarla, viverla, anche se per interposta persona per un piccolissimo momento. E quindi io credo che questa ricostruzione sia non soltanto utile ma doverosa, è anche un senso di responsabilità perché quale che sia poi il ruolo che noi abbiamo per provare a conoscere o a spiegare il mondo, quello che secondo me non dobbiamo mai rinunciare a fare è provare a capirlo, provare a capirlo non soltanto per non commettere gli errori perché gli errori li commetteremo sempre, no, fail, fail again, fail better. Però non bisogna neanche fare un, diciamo, un'apologia dell'errore perché la comprensione per quanto faticosa – ed è difficile, io che mi occupo di letteratura so quanto sia difficile anche solo passare dalle stringhe di parole dall'inizio alla fine di un testo – è un'attività faticosa. Per questo spesso la lettura scoraggia le persone. Però se poi si riesce a capire qualcosa, ecco, questo è importantissimo.

Per quanto riguarda l'intelligenza artificiale, quindi a questa ricostruzione del mondo che affidiamo all'intelligenza artificiale, io penso che possa essere un esperimento interessante più che altro per capire che cosa cambia in questo spostamento di prospettiva dall'essere umano a un essere non umano. No perché l'essere umano è sempre pieno di pregiudizi, non sono necessariamente una cosa sbagliata i pregiudizi. Noi arriviamo sempre con dei giudizi nelle situazioni che abbiamo già prima, non siamo mai presi dal nulla e messi in una certa situazione. Però è anche vero che per quel discorso del punto di vista che facevo prima, è proprio per il fatto che noi non abbiamo mai l'occhio di dio, non abbiamo mai la possibilità di vedere una situazione nella sua interezza senza esserci già dentro in qualche modo. Quindi penso che questo lavoro con l'intelligenza artificiale, mai lasciata a sé, perché diciamo l'aiutante umano, lo vediamo anche nelle traduzioni più soddisfacenti, è sempre richiesto. Penso che possa essere interessante, per tornare all'umano, ovviamente, e per capire che cosa visti da fuori, succede.

Questo peraltro è un fenomeno molto interessante, no? Noi stessi quando, per esempio, ci avviciniamo da lontano a uno specchio talvolta non ci riconosciamo. E poi diciamo: ma chi è quella signora? Ah, ma sono io. Ecco, qualcosa del genere forse l'intelligenza artificiale ce la può mostrare. Ci può mostrare qualcosa che noi non abbiamo mai il privilegio di vedere, cioè il mondo da fuori, come se noi non ci fossimo dentro. Sartre descrive questa scena bellissima nell'Essere e il nulla di lui che passa davanti a un uomo su una panchina e lui dice: “Quell'uomo mi vede come io non mi vedrò mai: da fuori”. Ecco, secondo me possono essere interessanti per questo, però bisogna ovviamente anche qui essere capaci poi di capire i risultati i quali ci porteranno.


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Carola Barbero, classe 1975, è professoressa associata e ricercatrice presso l’Università degli Studi di Torino, dove insegna Filosofia del linguaggio. Autrice di numerosi libri ed articoli fra cui Chi ha paura di Mr. Hyde?, Sex and The City e la filosofia, Quel brivido nella schiena, La porta della fantasia e Filosofia della letteratura.







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